Appunti di Storia moderna

martedì 28 gennaio 2014

Sul potere dei gruppi

Post scritto alcuni mesi fa, che pubblico adesso perché nel frattempo non ho potuto che trovare clamorosa conferma dei meccanismi descritti - certo, nulla di nuovo sotto il sole. Magari più avanti spiegherò perché lo pubblico proprio oggi.

Più passa il tempo più mi convinco dello straordinario potere legittimante dei gruppi (molto probabilmente scoprendo l'acqua calda, nda). Mi sembra cioè di riscontrare, in più ambiti, più o meno sempre uno stesso meccanismo di fondo: il fatto che si sia in tanti a pensare o fare la stessa cosa, conferisce a questa idea o azione un'aura di legittimità difficile da scalfire, davvero potentissima.  E' un filtro cognitivo, è la società che ti entra nei sensi. Penso che nessuno sia immune da questo meccanismo - che poi in un certo senso è costitutivo, avendo fra l'altro a che fare con la trasmissione delle idee e dei costumi, cioè con le basi della civiltà, per dire. 

Mi torna particolarmente utile un esempio. Cercando il modo per inserire il widget dei post correlati, mi sono imbattuta in un sito di un "giovane dinamico" (sic) che ha a cuore la monetizzazione dei blog. Ora, sono felice per chi diventa ricco col suo blog e Dario mi sta anche simpatico perché ha le idee chiare e le sa comunicare, anche se in quello che scrive c'è qualcosa di profondamente inquietante. Quindi lo cito soltanto perché quel che dice è particolarmente illuminante in merito a quel che voglio dire qui. Ecco i consigli di Dario:
"#1 Sfruttare il potere dei gruppi.
L’uomo è ossessionato dai gruppi. Abbiamo bisogno di appartenere ad essi.
Anche gli stessi ragazzi che si vestono total-black truccandosi gli occhi di nero per mostrarsi alternativi e dissociarsi dal conformismo appartengono al proprio gruppo: quello dei non-conformisti. Per questo motivo, più o meno, siamo tutti conformisti.
Ci sposiamo, mettiamo su famiglia, ci iscriviamo a squadre sportive, lavoriamo in team. Questo è parte integrante della nostra vita e ci deve far ragionare riguardo al comportamento dei potenziali sottoscrittori alla nostra newsletter.
Quando una persona è sul tuo blog o sito e sta pensando se lasciare o meno la propria mail nella form di iscrizione alla tua newsletter, la prima cosa a cui pensa è se è la sola a farlo.
Qualcuno prima di lei si è iscritto? Il numero di persone che sono già iscritte alla tua newsletter è un termometro di quella che è la tua autorità e rassicura la persona che si sta per iscrivere.
Questo fenomeno si chiama “social proof“: il social proof è l’unità di misura dell’autorità e dell’influenza che la gente percepisce di te.
I visitatori non desiderano altro che sapere che altre persone si fidano di te e che iscriversi è una buona idea. Finché non mostri loro l’ampio numero di persone già iscritte alla tua newsletter, stai perdendo un buon numero di possibili nuovi iscritti."
Dario ha perfettamente ragione. La gente ragiona un sacco così. Non avrei saputo dirlo meglio. Qui si parla dei blog ma il meccanismo è veramente estendibile a ogni ambito di vita umana.

Il passaggio che mi manca è, però, perché questo dovrebbe essere desiderabile. Mi manca cioè la giustificazione del passaggio dall'essere al dover essere: si tratta di qualcosa di irrazionale, di cui prendere coscienza e da combattere in modo risoluto. Non di qualcosa da imitare, perseguire, rafforzare. Ah ecco, scusate, la solita ingenuità.

E' estremamente difficile, anche per le persone più "illuminate", liberarsi da questa sorta di vincolo epistemologico che le lega ai gruppi. Elaborare un'idea o realizzare un'azione che non si trovi legittimata da alcun gruppo (ri)conosciuto implica uno sforzo, un'autonomia intellettuale che probabilmente non sarà mai perfetta, dato che sin dall'inizio le strutture della conoscenza individuale si configurano come strutture socialiIn fondo, è qui chiamata indirettamente in causa anche l'annosa questione del nesso tra sapere e potere. Perché i meccanismi con cui accediamo alla realtà non sono mai neutri. E' il presupposto e il risvolto politico della conoscenza: si tratta di un potere che è costitutivo, ma che è anche, spesso, limitativo rispetto al nuovo o al diverso da sé.
 
Vorrei considerare infatti un aspetto inquietante di tale dinamica. Penso alle idee o azioni che non sono legittimate da gruppi e quindi automaticamente rese inconsistenti. 

Più precisamente, qual è il problema di tutto ciò? 
- da un lato, un problema relativo ai criteri di legittimazione. Essi non sono criteri basati su una visione chiara e razionale delle idee/azioni, le quali non saranno scelte per via della loro bontà intrinseca (qualità), ma semplicemente perché più persone le considerano valide (quantità). Insomma, si tratta di una sorta di grande fallacia sociale;

- dall'altro, il potere di legittimazione dato dalla quantità di persone che, in modo più o meno coeso, riconosce validità a idee/azioni, ha contestualmente un forte potere escludente rispetto a altre idee/azioni prive della legittimazione sociale. C'è una tendenza conservatrice, una tendenza a conservare gli assunti impliciti o espliciti che funzionano da collante del gruppo stesso, talora, pena la sua disgregazione. Il vecchio "tu sei dei nostri", in sostanza, che nell'atto stesso di funzionare da collante del preesistente gruppo è anche escludente rispetto ad altro. 

E' noto, infatti, che l'elemento di novità (sia esso una persona, un'idea o un'azione) che si inserisce in un gruppo viene, più o meno regolarmente, espulso dal gruppo stesso, quasi che condizione dell'esistenza stessa del gruppo fosse la sua cristallina omogeneità e la diversità ne minacci direttamente la sopravvivenza. Almeno, questo è il timore sotteso a ogni meccanismo di esclusione - e il meccanismo di esclusione più frequente, o in ogni caso il primo a essere realizzato, direi, è quello della delegittimazione.

La delegittimazione consiste nel non riconoscere all'altro/a i requisiti minimi per la partecipazione alla relazione: esso/a viene privato/a dei mezzi stessi di difesa, perché qualunque mezzo usato subirebbe la stessa liquidazione a priori. Esempi: sei giovane, quindi non sai di cosa parli; sei vecchio, quindi la pensi in modo viziato a prescindere; hai fatto parte del gruppo x o y che ha fatto q e p, quindi qualunque cosa tu dica non potrà essere presa in considerazione; sei timido, introverso, secchione, gay e connesso immaginario, quindi sfigato; eccetera eccetera. Ma ci sono anche gli esempi "in positivo", di, come dire, "iperlegittimazione": hai scritto un sacco di libri e ti chiedono l'autografo, quindi sei un bravo scrittore; hai una cattedra importante in un ateneo importante e tutti ti invitano ai convegni, quindi sei un genio; eccetera. Sì, insomma, ne abbiamo già parlato in relazione al principio d'autorità: qui, però, poniamo l'accento sul suo alleato migliore, su ciò che lo fa veramente funzionare, e cioè il potere legittimante dei gruppi. Senza un gruppo che attribuisca autorità a x o y, il meccanismo dell'autorità non esisterebbe.
Se, al contempo, da un lato il fatto che si sia in tanti a pensare/fare una stessa cosa rende questa idea/azione potenzialmente più incisiva, aumentandone le possibilità di affermazione nella realtà, dall'altro l'esito è almeno in parte irrazionale. Perché ci troviamo di fronte a meccanismi epistemologici e morali profondamente lobbizzati; sicché le scelte e l'andamento delle cose saranno condizionate da criteri quantitativi più che da criteri qualitativi, e la quantità non è una garanzia intrinseca della bontà di alcun ché.

Esempi.
Quando mi sembra che le persone siano troppo tutte d'accordo su una certa questione (magari sull'opinione relativa a una persona o a una questione eccetera), provo subito un moto di diffidenza perché ci vedo in primo luogo questo meccanismo estremamente coesivo che è il "pensarla tutti allo stesso modo perché la pensiamo tutti allo stesso modo", non so se mi spiego. (Sì, è proprio una petitio principii). Bisogna dunque indagare in che misura tale accordo sia oggetto di riflessione; spesso avviene che esso si dia spontaneamente, perché trascinati dalla dirompente forza persuasiva della quantità. Farsi un'idea indipendente e autonoma rispetto a x o y, a partire da queste condizioni, è tendenzialmente poco probabile; si è portati, in breve, a deindividuarsi, e la focalizzazione dell'oggetto, essendo precondizionata dalla prospettiva coattiva del gruppo, risulta parziale già in partenza. Sarà allora difficile svincolarsi dalla focalizzazione sociale dell'oggetto per attingere, come dire, a una focalizzazione critica. La mediazione sociale si interpone cioè in questo processo in modo prepotente e invisibile. 

Il senso di appartenenza è rassicurante. Meno rassicurante è provare a pensare con la propria testa: questo presuppone non solo autonomia intellettuale, ma anche, in un certo senso, emotiva. Non è facile e non è scontata... 

Si potrebbe, per fare un esempio, pensare alle idee sul copyright. Se tutti credono che si tratti realmente di una tutela degli autori e non di una tutela degli editori, l'idea inversa farà una fatica estrema ad affermarsi; di nuovo, perché non si considera l'oggetto in se stesso, ma la mediazione sociale prende il sopravvento nei criteri di legittimazione. Di solito tutti la pensano così, quindi è così. Si può fare lo stesso discorso per moltissimi altri ambiti: il femminismo, l'orientamento sessuale, eccetera.
E' un meccanismo caratteristico, che forse accompagna tutta la storia dell'umanità. Ma c'è una differenza: con l'avvento dei media esso diventa ancora più forte e condizionante. Inoltre, succede che i gruppi non solo detengono, in quanto tali, un potere legittimante, ma che tale potere legittimante talora va a sovrapporsi al potere materiale. Un'idea, una certa visione del mondo, un'opinione determinata, può così essere più forte e incisiva, cioè dominante, in virtù del fatto non solo che è sostenuta da tante persone, ma anche perché questo gruppo detiene anche un potere materiale e quindi può raggiungere e condizionare con la propria visione normativa più persone di quanto avrebbe potuto non detenendolo: se ci sono i mezzi, c'è quasi tutto. In questa prospettiva, i mezzi di produzione sono anche mezzi di produzione dell'immaginario.

Penso per esempio all'idea molto diffusa che il successo nella vita dipenda esclusivamente da se stessi, e non da fattori esterni come il mercato del lavoro, la mancanza di meritocrazia, eccetera, con connesso corredo ideologico per cui il disoccupato è moralmente e/o geneticamente difettoso. Questa idea gode di legittimazione anche in virtù del fatto che il gruppo che la sostiene - la classe dominante - è anche il gruppo materialmente più forte; che non solo detiene in mezzi di produzione, per usare un'espressione tipica, ma spesso anche i mezzi di comunicazione, cioè i mezzi potenziati di trasmissione delle visioni del mondo. L'esito è quello dell'ideologia, dell'ipostatizzazione di una visione del mondo che ha la precisa funzione di prolungare e rafforzare uno stato di cose. 
Un'idea alternativa a quella genericamente definibile come "neoliberismo" fatica, a queste condizioni, a farsi strada, per via del potere condizionante dei gruppi, in termini epistemologici e materiali, in quanto strettamente connessi.

C'è dunque un potentissimo meccanismo conservatore che ha a che fare direttamente con la morale e, come dire, con la sfera cognitiva. E' potentissimo perché è in grado, per moltissimo tempo, di inibire il cosiddetto "progresso", l'emancipazione dal vecchio e l'affermazione di idee nuove, magari intrinsecamente razionali ma socialmente delegittimate, in quanto sui ragionamenti prende il sopravvento il senso d'appartenenza e il conformismo "istintivo".

De reputatione et corruptione.
Ma non c'è neanche bisogno di scomodare i massimi sistemi. Questo avviene banalissimamente anche intorno a quella cosa chiamata "reputazione" o "stima sociale". In pratica, se tante persone si sono fatte emotivamente impressionare da Ubaldo, e Ubaldo avrà brillanti doti di potenziatore della propria immagine medesima, allora Ubaldo sarà simpaticissimo e degno di stima e approvazione, e bisognerà passare da lui per avere una sorta di autorizzazione a esistere socialmente. Lo pensano tutti, quindi è così. Per contro, lo "sfigato" sarà isolato e la sua conditio sphigae inemendabile.

C'è un film che rende ottimamente questo aspetto. Mi riferisco a Il Sospetto (2012): in breve, benché il tema sia apparentemente quello della pedofilia, in realtà il tema del film è quello della reputazione. Si tratta in un certo senso della stessa cosa dell'"onore", più o meno. La "reputazione" è la storia socialmente costruita di se medesimi - mi verrebbe da definirla così. E' la propria "storia sociale", non quindi la propria "vera" storia, ma quella che è stata costruita - attivamente e/o passivamente - presso gli altri. Si tratta di una realtà che attiva meccanismi incontrollati. Nel film, basta una voce, un sospetto di pedofilia, per rovinare la vita del protagonista. Che perde il lavoro, quasi tutti gli amici, il cane, la possibilità di accedere a eventi sociali di ogni tipo, la ragazza, e ci mancava poco che perdesse anche il figlio. E' bastata una voce, combinata con il tabù della pedofilia, per perdere il controllo sulla propria vita: l'immagine sociale, così, distrugge l'"immagine reale", la soverchia al punto da eliminarla di fatto. Si pensi anche alla storia di Marrazzo di cui parlavamo tempo fa, tanto illuminante quanto inquietante.

Effetto Lucifero.
E' passato alla storia quell'esperimento che mostrò come le persone, in determinate situazioni, tendano a liquefare la propria autonomia nell'identità senza volto del gruppo, con esiti nefasti, che includono violenza, umiliazione e deresponsabilizzazione. Anche e soprattutto le cosiddette "persone perbene", di impeccabile moralità. Si tratta di un processo, cioè, che talora ha a che fare con quello che definiamo "il male": in un gruppo, con un gruppo, il "male" sembra meno "male". Il potere di legittimazione dei gruppi, emerso negli esperimenti di Milgram o di Stanford, sembra potenzialmente illimitato. La cronaca ce ne offre infiniti aberranti esempi: pensiamo al caso Abu Ghraib, al pestaggio nella Diaz a Genova, o negli anni '70 al famoso Bloody Sunday irlandese o a quanto accaduto con il nazismo - e non è un caso che tale meccanismo trovi terreno fertile nelle occasioni dove l'esercizio di un potere è legittimato da un distintivo. In questo caso, infatti, abbiamo in primo luogo un'autorizzazione ad agire proveniente da istituzioni ufficialmente legittimate - lo Stato -; e in secondo luogo l'azione che tende a essersi compatta del gruppo. Si tratta dunque di un meccanismo cruciale, che ci porta letteralmente al di là del bene e del male: perché se a segnare lo spartiacque tra bene e male è un gruppo e non qualcosa di definibile come "razionalità", "lucidità di pensiero", "spirito critico" eccetera, allora davvero tutto è possibile

Nietzsche l'aveva capito, che i meccanismi di attribuzione di valore hanno sempre qualcosa di "marcio" e irrazionale dietro. Mi piace persino credere all'ipotesi, molto probabilmente infondata, che la famosa follia di Nietzsche non fosse stata altro che un suo modo deliberato per rovinarsi la reputazione, conscio di tutto l'investimento valoriale di cui gode nella morale dominante. Ma per concludere, sarebbe dunque opportuno prendere coscienza di tutto ciò e allenare il pensiero a prendere le distanze dalle visioni del mondo dei gruppi, per considerare il più possibile le cose in se stesse. Riconoscere il ruolo attivo e inibitore della mediazione sociale può aiutare a canalizzare questo processo di indipendenza intellettuale; che, certo, difficilmente sarà pienamente compiuto - dopotutto, è sociale anche il linguaggio stesso con il quale ci rappresentiamo il mondo -, ma che, come ideale regolativo, è assolutamente necessario per l'affermazione di un criterio razionale nella conoscenza e nella politica cioè proprio nella vita. Se vogliamo un mondo migliore, beninteso: perché se vogliamo funzionare come greggi teniamoci pure questi meccanismi, eh.

Ringrazio Silvia per avermi segnalato l'esperimento di Solomon Asch sulla "polarizzazione di gruppo", davvero illuminante: "Asch conclude che i suoi risultati sollevano serie preoccupazioni circa la possibilità che il 'processo sociale sia inquinato' dal 'predominio del conformismo'. E aggiunge 'il fatto di aver scoperto che la tendenza al conformismo nella nostra società sia così forte che giovani ben disposti e sufficientemente intelligenti sono pronti a chiamare bianco il nero è motivo di preoccupazione'....l'esistenza di una grande quantità di errori come risultato di una mera esposizione alle conclusioni scorrette di altri ci induce a domandarci se e quando la deliberazione all'interno dei gruppi e delle istituzioni conduca le persone nella giusta direzione." Qui il link di fallacielogiche.it.

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2 commenti:

  1. interessante...ma un libro quando lo scrivi!??

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  2. Quando mi pagheranno in anticipo per darmi modo di documentarmi e di farlo! Quindi molto probabilmente mai :) Ahahah grazie fabio :)

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