Appunti di Storia moderna

giovedì 21 gennaio 2016

Microresistenze

[Ho scritto questo post nell'ottobre 2014. Non l'ho mai pubblicato perché lo giudicavo troppo smieloso, tendenzialmente banale, forse paternalistico e certo oggettivamente insopportabile. Anche ora, a rileggerlo, provo un certo fastidio. Tuttavia, devo prendere atto che si tratta di uno dei post che più spesso mi tornano in mente quando parlo della vita con le persone. Vorrei dire loro: "però ecco, vedi, ci sono le microresistenze" e spiegare nel dettaglio che cosa intendo. Perciò ho capito che il post riguarda qualcosa che in generale ritengo molto importante nella vita. Per questo voglio essere indulgente sui suoi risvolti diabetici].

Poi torno alla consueta acidità, giuro. 

Eravamo intorno a un tavolo, e dopo esserci raccontate, in quattro, i rispettivi disastri, eravamo giunte alla conclusione che: "è tutto una merda". La più propositiva era L. Io, se posso fare una classifica, stavo al secondo posto. 



Non riesco a godere della compagnia di persone troppo disincantate, che hanno rinunciato a tutto, anche a innamorarsi ancora - anche se, magari, ne hanno tutti i motivi. E non riesco a godere della compagnia di persone ancora troppo illuse, disposte ad attaccarsi ancora a qualcosa che fallirà di nuovo. Le persone positive e le persone negative, in qualche modo mentono: hanno deciso che è tutto di un colore, ma io voglio le sfumature e mi aspetto sempre l'inaspettato. In questo ho probabilmente torto. Allora diciamo che decido deliberatamente di volere avere torto.

(La realtà non è mai solo bianca o solo nera. Spesso è giallina).

Abbiamo chiacchierato amabilmente e riso un po', ma quelle risate avevano un retrogusto amaro: tanto, è tutto una merda, era il pensiero retrostante, sottile e invisibile, che spadroneggiava in silenzio nell'intimo cantuccio di ciascuna.
Sicché tutto l'entusiasmo con cui mi ero approcciata alla serata - volevo proporre l'ennesimo progetto, l'ennesimo dai-ce-la-faremo, l'ennesimo insensato tutto andrà meglio prima o poi - si è scontrato così con l'inevitabile oggettività della tristezza. Un tipo di tristezza particolare: è quando non hai più voglia di partecipare, di credere in nulla, di darti da fare per, perché lo hai già fatto tante, troppe volte e hai visto che non è servito a niente. Che non ti immaginavi di arrivare a questo punto dopo averci messo tantissima energia, tutta un'energia che non puoi raccontare e che adesso è come sparita, puf, non esiste più e sei spiazzata, e non sai dove sbattere la testa. Non è il mio caso: almeno, non ancora. Ripeto: spero di non arrivare mai a quel punto. Ma è forse questo che s'intende con crescere? E' allora vero che crescere è rassegnarsi?

Chi restituisce, che fine fa, tutta l'energia che ciascuno mette nelle proprie lotte? Quanto si spende per perseguire i propri desideri, per non tradirsi mai, per guadagnarsi il famoso "diritto alla felicità" di cui si parlava due secoli fa? Allora qualcuno aveva ancora da promettere qualcosa...

Senonché dopo lunghi discorsi sul futuro, sulla politica, sul burrocacao, L. mi parlava di una scena che aveva visto la mattina. Era in spiaggia e c'erano due genitori con bambino che giocavano a palla. Ok, ho pensato subito: seh vabè, mulino bianco. Invece lei mi ha detto no no, dovevi vedere, erano veri. Anche rozzi in certi atteggiamenti, si insultavano benevolmente, parlavano in dialetto, io li ho trovati fantastici. Non riesco a spiegarlo, mi ha detto L., ma per me è quello il punto.

Con questi passaggi sono giunta a chiarirmi un pensiero che ho sottotraccia da tempo, ma che non riuscivo per prima a formulare a me stessa, vuoi per la pregiudiziale mulino bianco, vuoi perché talvolta mi sembra che parlare di bellezza e felicità in un mondo che va a rotoli mi sembra faccia lo stesso gioco del potere. Ma c'è qualcosa di più profondo.
Nel mezzo del dolore, della meschinità, delle delusioni, della povertà, del degrado, del disincanto, si costruiscono spazi di microresistenza. E' quello che, secondo me, voleva dire tra le altre cose Rosi con Sacro GRA. E' tutto una merda, continuerà a essere tutto una merda, ma possiamo costruire spazi di microresistenza. Piccoli, disincantati spazi di libertà. Angoli di non estorsione e di non finzione, quasi rubati al quotidiano, sottratti alla deformazione generale. Momenti di non colonizzazione del brutto e del merda. Esperienze sconnesse, imperfette, ma vive e reali di microverità. (Adesso possono partire i violini, grazie).
Parafrasando Adorno, sì: il tutto è falso. Ma nel tutto falso degli spazi di microresistenza, di microverità, sono possibili. Indispensabili. Diceva Fortini - e grazie a Matteo per avermelo ricordato - che "non si dà vita vera se non nella falsa". 

“L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” [Italo Calvino, Le città invisibili].

La felicità non è un'entità ontologica che sbrilluccica di luce propria, dai contorni netti, gli stessi di un oggetto che possiamo vedere e toccare. La felicità credo che somigli di più a una di quelle sensazioni contraddittorie che ci attraversano senza presentarsi con una carta d'identità, con un nome e cognome, in modo che si possa riconoscerle distintamente. Come tutte le cose della vita, non è mai uniforme, univoca. La vita è sempre ambigua, sfuggente, e pure stronza. Così la felicità. La felicità è uno stato d'animo informe, pronto a tramutarsi in altro, è una zona di passaggio appena palpabile fra le continue metamorfosi di ciascuno. Non è altro, non è assolutamente nient'altro...Facciamocene una ragione.

E allora pensi a quelle cene in allegria che i tuoi vicini stranieri organizzano d'estate in piazza, ascoltando musica, ridendo e ballando, perché hanno capito che la merda che si vive ogni giorno non è un buon motivo per impedirsi di continuare comunque a ballare. Oppure pensi a quelle conversazioni tra anziane, che si fanno compagnia, perché è tutto un farsi compagnia. Quegli abbracci che arrivano così, gratis, un attimo prima del precipizio e che in fondo non fai che cercare sempre quello, un abbraccio, un senso di casa e di accoglienza. Pensi ai discorsi di A., che si entusiasma a parlarti di fideussioni e diritto tributario, e provi a resistere ad ascoltarlo senza sbuffare - e pensi, quanto è buffo quando piega la bocca il quel modo. Pensi a tuo figlio, a quando lo sorprendi con un dito nel naso e lui che si nasconde, senza troppa convinzione; oppure quando lo vedi e ti sembra già un ragazzone, te lo immagini adulto andare incontro al mondo pieno di vita. O a quelle domeniche mattina, quando il sole è forte e questo dev'essere per forza la risposta, perché è troppo bello e tutta l'energia del sole sembra che tu in qualche modo debba ripeterla. Pensi agli scherzi di quell'impiegato delle poste, che si vede benissimo che non ne può più di stare allo sportello e allora delizia le persone col suo umorismo scanzonato, e chi parla con lui può distrarsi un attimo dalla merda, alleggerirsi l'umore, togliere un po' di nero al quadro fosco che ha davanti. Pensi a quando, insieme alle tue sorelle, prendi in giro tua madre per le sue bizzarre manie, e lei cerca di difendersi trattenendo una risata. Pensi a quando trovi la poesia giusta, la riga giusta, il momento giusto. Pensi a quei momenti di buon umore immotivato, quando il sacro fuoco del cazzeggio ti coglie e ti friccica tutta una voglia di andare avanti comunque, anche dopo l'ennesimo calcio nel sedere. Perché continua a esistere la musica, la tua musica preferita, che magari cerchi di ripetere con la chitarra, male ma che importa. E poi c'è il mare, capito? C'è il mare. Rendiamocene conto... Può essere fare l'amore senza pensare a niente. Il gioco in tutte le sue forme. Ridere insieme dopo la tensione, allentare i nervi trovando un contatto. Può essere perdere tempo a guardare un bellissimo paesaggio mentre sei in ritardo, una cosa solo tua. Può essere un bicchiere di vino in compagnia di persone semplici e libere, una sera di primavera, senza l'ansia del lunedì, lontano dalle performance. Ma può essere anche quando ti arrendi, quando decidi che non hai tanta voglia di lottare. E fai spazio alle pause, senza l'ansia di ricominciare, spegnendo un attimo l'interruttore senza chiederti quando lo riaprirai. Accetti che non ti va tanto di parlare, non ti va di stare a dire, di avere un'opinione, di piacere. Non ti va, e lasci che questo silenzio informe ti scivoli addosso, paradossalmente ritemprante...
Non posso continuare: di certe cose non si può fare un elenco.

Spazi di autenticità, di emozione e condivisione, quotidiani, dove si è se stessi e nulla è perfetto, ma stringiamo tra le mani un momento di non alienazione, di non finzione, di non strategia e calcolo e opportunità e. La cosa più straordinaria, in questo, è che sono spazi potenzialmente intoccabili, potenzialmente inaccessibili al brutto e al merda.
C'è, forse, del pessimismo dietro questo discorso, non lo nascondo. Provo sempre un certo fastidio nel sentire l'aforistica edificante sulla felicità delle piccole cose. Ha qualcosa di bugiardo e paternalistico, e non vorrei mai prestarmi a questo approccio parrocchiale generalmente assolutorio. Inutile magnificare "le piccole cose": è il miglior modo per consentire a chi detiene il potere di continuare a usarlo per interessi particolari, usando anche questo come distrazione di massa. Come fai a parlare della "gioia per le piccole cose" a una persona che lavora 12 ore al giorno in condizioni di sfruttamento, o che ha lavorato per una vita e adesso non ha niente in mano? Solo per dirne una. 

Beh: quella persona dovrà lottare, con tante, infinite micro-lotte quotidiane. Potrà legarsi agli altri per una macro-lotta. Ma lei resterà sempre micro, il suo potere sarà sempre micro: checché ne dicano gli aforismi dei grandi presidenti della storia. Il singolo è politicamente zero. Le sue micro-lotte sono necessarie, com'è necessaria la micro-resistenza affettiva. Che hanno, secondo me, fuor di estetizzazioni banali, una natura politica difficile da spiegare. Liberarsi dalla morsa del brutto e del merda è possibile, almeno, e sottolineo almeno, grazie a  queste esperienze di micro-libertà che costellano in modo puntiforme ciascuna vita. Passano veloci, quasi non te ne accorgi. Ma arriva il momento che capisci che contano solo quelli...

A quante persone è stata tolta questa possibilità della microresistenza? Questo è il più crudele dei delitti che si possano compiere. L'inferno è qui, tra noi, ma tutti abbiamo diritto, almeno, a piccoli spazi di microresistenza. Con le amiche abbiamo deciso perciò di lasciar perdere i progetti yeah domani cambiamo il mondo, e di darci a un deliberato egoismo estetico, per guardare a intervalli regolari dei film insieme con un po' di vino rosso di quelli buonissimi. Le ringrazio, anche solo per questo...

7 commenti:

  1. A me l'inslulina! ;)
    Ho pensato anch'io alle microrestistenze, recentemente. Quelle di chi incontra altre persone microreststenti che vorrebbero anch'esse trovare qualcosa in mezzo all'inferno e dargli spazio. Qualche giorno fa hanno sgomberato una casa occupata. Era un edificio abbandonato da anni, di proprietà di un istituto di case popolari. Per tutto il giorno è stata bloccata la via da polizia e carabinieri, arrivati anche da altre regioni per far uscire ed arrestare delle persone disarmate che al contrario intendevano restare lì. Questo accade il giorno prima in cui tutti i giornali locali parleranno del fatto che in tutta la regione esistono 1200 edifici dell'istituo di cui sopra lasciati vuoti. Mentre in ottobre si parlava di circa 1300 inquilini di suddette case che non possono permettersi di pagare l'affitto (alla faccia del "popolali"), che da qualche anno viene costantemente aumentato. Ed allora ti chiedi come sia possibile che rimangano delle case vuote, e se non sarebbe più sensato riempirle tutte abbassando gli affitti. Lo stesso giorno dell'articolo sulle case lasciate vuote, si intervista il questore, che paragona gli anarchici che occupavano la casa che dava alloggio anche a dei senzatetto a dei terroristi. Riguardo ai senzatetto, gli stessi giornali in passato hanno scritto articoli riguardo ad alcuni di loro che erano costretti a vivere in una zona abbandonata da una vecchia fabbrica che è stata chiusa lasciando tutta l'area estremamente inquinata. Si prova pietà per loro, ma non per quelli che preferiscono occupare un posto che non li avveleni.
    Ci si lamenta di come la società sia ingiusta, del costo delle case, degli sprechi, del consumismo e di come tutto questo ci renda egoisti, ma quando qualcuno cerca di contrastare tutto ciò, opponendosi all'immoralità e all'ingiustizia che la legalità ha reso normale, si fatica ad accorgersi del significato di ciò che sta facendo. Si dice che quello che fa è illegale, come se ciò bastasse a chiudere la questione. Come l'omino della stanza cinese di Searle, che segue le istruzioni emettendo delle risposte sensate, ma senza comprendere ciò che sta facendo.
    Se Gandhi o altri "campioni" della disobbedienza civile ora accettati e resi icone, avessero fatto ciò che hanno fatto, ma oggi, i giornali forse li definirebbero terroristi?
    Quando le microresistenze individuali si sommano a quelle degli altri ed iniziano a diventare evidenti e a creare delle zone temporaneamente autonome (per citare Hakim Bey), allora non vengono più tollerate.
    È concessa l'ora d'aria, ma non l'evasione.

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    1. Ciao Stefano, il mio post era più esistenziale-psicologico che politico, parlava in un certo senso di microresistenze di tipo affettivo/esistenziale, ma sono consapevole della tensione con la dimensione politica, che implica tante questioni. Rendere "macro" le microresistenze politiche è difficile perché è in quel caso che le resistenze danno fastidio, in quanto vanno a toccare gli interessi di qualcuno.

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  2. ho sbagliato. sono 1200 appartamenti vuoti. non edifici.

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  3. Ciao, ma resistere è un atto politico, qualsiasi tipo di resistenza tu metta in atto. Bella la frase di Calvino. Guisto per aggiungere mielosità, vogliamoci bene e aiutiamoci a vicenda. olè!

    UnCaneProfumato

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    1. Ciao CaneProfumato, non ne sono affatto convinta, anzi, sono contraria alla tendenza generale di appioppare l'aggettivo "politico" a tutto. C'era una tizia che faceva crowdfunding per dei suoi obiettivi e lo definiva "un atto politico". Ho sentito dire da taluni che persino i ravioli al sugo sarebbero politici. Ho dunque i miei dubbi che "qualunque tipo di resistenza tu metta in atto" sia politico. Sono a favore di un uso sì flessibile e non rigido, ma ciononostante meno approssimativo del concetto di "politico" di quello che va molto di moda oggi. Olè! :)

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    2. Io penso che se è vero che siamo individui diversi gli uni degli altri e che ciascuno di noi ha una propria visione della vita (simile a, diversa da, etc) e che se, tendenzialmente, ci muoviamo verso una direzione piuttosto che un'altra, con tutte le difficoltà del caso, allora ciò che facciamo non può essere che politico. Anche il tuo cercare e creare dei momenti, delle zone in cui la merda non arriva è un atto politico, ma non nel senso calcolatore, di mediazione, scambio di favori, nel senso che un gruppo di persone vuole altro e cerca di prenderselo, di crearsi gli spazi. Per assurdo anche i ravioli al sugo possono essere un gesto politico, metti che chi ha detto quella frase odia i ravioli e vuole estirparli dai supermercati e così compra confezioni su confezioni (scherzo).
      Per come la vedo io l'atto politico è una manifestazione dell'essere vivo, del prendersi il diritto di dire “questa cosa non mi sta bene, faccio altro” oppure anche solo dire “fanculo”, di unirsi ad altre persone con una visione simile.
      Spero di essere stato chiaro. Ciao.

      UnCaneProfumato

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  4. Non penso che ogni gesto sia "politica". C'è una sorta di attenuazione su ogni cosa che si fa, che finisce con l'isolare nell'individuo o nei pochi individui limitrofi, il gesto. La ribellione personale, non sempre viene amplificata fino a diventare rivoluzione. Anzi, quasi mai.
    Ma la piccola sacca di ribellione o resistenza che si crea, è il mattoncino indispensabile perché si possa realizzare quella "macro". L'ideale è una giunzione di tante sacche individuali che scoprano, poco alla volta, di non essere poi così isolate. Quel punto, si è già superata la politica e la rivoluzione. Ma qualsiasi cambiamento politico su larga scala, che non sia preceduto dalla presa di posizione dei tanti "micro", non può che contenere sempre almeno un po' di prevaricazione. Quindi, viva i "micro", i: "quel poco di mondo che posso rendere come vorrei che fosse".

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